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      CommentAuthorJamin
    • CommentTime30 Jan 2009
     

    Minori stranieri non accompagnati
    Affidi "soft" per gli afghani come Zahir

    Affidi “leggeri”: ecco cosa manca per un più rapido e migliore inserimento dei minori stranieri non accompagnati nel nostro tessuto sociale. Perché, dopo che a metà dicembre il giovane afghano Zahir è morto dilaniato sotto le ruote di un tir, proprio alla fine del suo viaggio della speranza, non si è certo interrotto lo stillicidio di arrivi di ragazzi afghani (non solo hazara, come un tempo, ma anche pashtun), curdi iracheni, albanesi, kosovari nel nostro comune. Nel 2008 il Comune di Venezia ha provveduto a 350 di loro. Si nascondono nei container in arrivo al porto di Venezia (uno di loro è stato scoperto proprio martedì), nei furgoni telonati, nel cassone del tir o si legano sotto il semiasse; altri cercano passaggi dai nostri confini di terra orientali. Fuggono dalla guerra o dalla fame, inseguono il sogno di una vita migliore o incarnano un preciso progetto familiare. Comunque sia arrivano da minorenni a Venezia e come tali finiscono sotto la tutela delle nostre leggi, che impongono di prendersi cura di chi ha meno di 18 anni, specie se non ha una famiglia che provvede a lui.

    Un’opera educativa. Attualmente questi giovani arrivano in comunità come quelle del Centro Don Milani, dove inizia il loro percorso di costruzione di un futuro precocemente autonomo, appena compiuti i 18 anni. Mediamente 35-40 minori riempiono le comunità del Forte Rossarol. E' proprio in questa fase che precede la maggiore età, in cui questi ragazzi devono prendere confidenza con la nostra lingua, i nostri usi e costumi, la nostra cultura occidentale, che non solo gli operatori e gli educatori possono fare qualcosa per loro. Perché oltre a versare qualche lacrima per Zahir e gli altri come lui che non completano il loro viaggio, oltre ad aprire qualche volta il portafogli, c'è un'opera educativa da svolgere e ce n'è un gran bisogno.

    Affidi leggeri. «Gli affidi “classici” sono impegnativi, lunghi, in qualche caso problematici. Per integrare, inserire questi ragazzi nella nostra società pensiamo piuttosto ad affidi “leggeri”. Si tratterebbe di invitare la domenica, o il sabato pomeriggio, uno di questi ragazzi a casa propria, o portarlo con sé quando si fa una gita in montagna o al mare, ospitarlo per un week-end...», propone Renato Mingardi, responsabile del progetto “I care” di Coges-Don Milani.

    Trasmettere quello che per noi conta. Già il Comune sta percorrendo la strada degli affidi presso connazionali (il cugino del cugino che sta a Treviso, l'amico del papà che sta a Spinea...) e la cosa dà buoni frutti. Ma in questo caso, appunto, si tratterebbe non di un'assegnazione definitiva, ma di un'amicizia speciale. «Il mondo parrocchiale può essere di grande aiuto per costituire percorsi di integrazione veri e regolari», spiega Marco Zamarchi, presidente della cooperativa Coges. «Il fatto è che spesso capita che ci si lamenti perché un immigrato non sta alle regole, ma come fanno se nessuno gliele insegna? Gli operatori da noi spiegano loro i comportamenti socialmente accettabili, ma se questi giovani qualche volta hanno contatti con una famiglia, con qualche coetaneo veneziano, capiscono che questi comportamenti non sono una fissazione della nostra comunità, piuttosto una necessità per continuare a vivere in Italia. E poi ci sono i nostri riferimenti culturali da trasmettere: il valore del lavoro, della famiglia. Non bisogna avere paura di difendere e comunicare quello che per noi conta veramente. La grande scommessa è offrire strumenti, modalità per l'integrazione: il vivere assieme si costruisce assieme. E' un investimento che porterà frutti nei prossimi anni».

    Come nelle nostre campagne. Quando un certo numero di famiglie si sarà fatto avanti (infominori@cogescoop.it, cell: 340.3947841) il Centro Don Milani organizzerà degli incontri: quattro serate il giovedì, con dibattiti, incontri, altrettante occasioni per conoscere da vicino questi ragazzi e permettere agli operatori del Centro di stringere relazioni con chi si propone per questi “affidi soft”. «Pensiamo al modello che era consueto nelle nostre campagne, quando i genitori partivano per lavorare in Germania i vicini si prendevano cura dei figli. E' una forma di buon vicinato che apparteneva alle nostre radici ma che ora, in un tessuto urbano, occorre ricostruire».

    Paolo Fusco